Siccome, anche parlando di cucina, “dove hai studiato” credo che possa far parte di un biglietto da visita per chi non ti conosce, voglio spendere due parole sui due corsi che mi hanno accompagnato nell’ultimo tratto del mio percorso tra pentole e fornelli. Come dire, “corsi e percorsi”.
Come dicevo nel post di “apertura” di questo mio blog, la cucina è di questi tempi argomento più che mai… appetibile. Il che, ovviamente, ha portato alla proliferazione di tutto il mercato “indotto”, compresi, anzi forse tra i primi, scuole, corsi, lezioni e workshop vari. Per questo, quando ho deciso di fare un corso di livello più “orientato al business” di quelli fatti finora (complice la sterzata che il sentiero della mia vita ha fatto qualche tempo fa, ci farò un post prima o poi), la lista di “scuole” da vagliare (e scremare) che mi sono ritrovato davanti non era breve. Mi è venuta per fortuna presto in soccorso la mia ineffabile consorte, che come al solito “come-farei-se-non-ci-fosse” (citazione ricorrente, ironica ma mica tanto, sia nei suoi che nei miei discorsi): “Devi assolutamente parlare con Paolo Dalicandro: è il figlio di una mia amica, ma soprattutto è un affermato ‘Personal Chef’ ed è sicuramente la persona giusta per un consiglio…”
E in effetti Chef Dalicandro, come avrei imparato presto a chiamarlo, è stato davvero prezioso (da subito, voglio dire): mi ha consigliato la scuola giusta (“A tavola con lo Chef” di Roma) e, in quella scuola, il corso giusto per cominciare (“Avviamento alla professione di cuoco”). In modo estremamente corretto, nella prima chiacchierata telefonica mi disse “… il corso che tengo io (“Personal Chef”, appunto) lo potrai fare dopo, se vorrai e se ti sembrerà utile alla strada che vorrai seguire…”
Aveva ragione, eccome. Il corso “avviamento alla professione” mi ha fatto vedere materie prime, ingredienti e preparazioni in un’ottica che solo chef professionali, con tanti anni di cucina (quella “vera”) sulle spalle (e nelle mani) ti sanno comunicare. Come stai in cucina, come ti muovi, come ti rapporti con una “brigata” e con uno chef: lo vedi, lo senti. É solo uno sguardo, certo, ma è uno sguardo molto “formativo”: alla fine, pentole e fornelli li vedi (e li maneggi) in un altro modo. Ci vuole la pratica, poi, il lavoro vero, e non c’è dubbio: ma se, come era per me, non l’avevi fatto prima, qui impari davvero qualcosa. E anche chi lo aveva fatto mi dice che qualcosa lo impari comunuque.
Certo, dopo “Personal Chef” ti apre un mondo: tre ingredienti, o quattro, una situazione, una richiesta di servizio, un orario da rispettare: e adesso che fai? Oppure: cosa devi sapere del tuo cliente (e, forse ancora più importante?) cosa deve sapere lui di te. E via cucinando, ma anche parlando, capendo, e, naturalmente, impiattando. Fino all’esame, un’ esperienza da ricordare (in positivo, ovviamente).
Libri, foto, il mondo ormai imprescindibile della Rete: tutto aiuta, certo, e di tutto c’è bisogno. E poi ovviamente l’esperienza, che la puoi – e la devi – fare “solo vivendo”: ma una scuola ci vuole, datemi retta…